
Sono nato a “Case Trolli” nel Comune di Medesano il 15 ottobre 1913. Questa località dove i miei nonni risiedevano fin dal 1880, vide i natali anche di mio padre, nel 1884, e dei miei fratelli. La mia famiglia rimase lì fino al 1933, anno in cui ci trasferimmo a “Costa Garibaldi”, sempre a Medesano. Il 6 aprile del 1933 fui chiamato alle armi a Tarvisio , dove trascorsi 11 mesi ed altri 12 li passai a Chiusaforte. In quel periodo vidi partire molti compagni per l’Africa ma per il mio contingente, invece, arrivò uno strano ordine che prevedeva il rientro a casa per quanti fossero stati in possesso di abiti civili. Riuscii a farmi inviare da casa il necessario, ma invece del congedo, inaspettato arrivò l’ordine di trasferimento a Tarcento.
Zaino in spalla e valigia alla mano, passando per Moggio, Carnia, Venzone, Gemona ed Artegna, giungemmo a piedi a destinazione. Fra ordini e contrordini, fasi concitate e momenti più tranquilli (non prima di avere fatto 4 campi), ottenni infine il congedo il 4 aprile 1936. Nella primavera di quell’anno venne richiamato alle armi mio fratello più grande, classe 1912, ed inviato in Albania. Dopo pochi giorni giunse anche il mio turno, ma con destinazione Udine, aggregato all’8ª Sezione Sanità. Rientrando a casa per una breve licenza “agricola”, ebbi la gradita sorpresa di scoprire che mia cognata aveva dato alla luce il primogenito Armando. Dopo un fallito tentativo presso i Carabinieri di prolungare la licenza, tornai a Udine dove alla metà di settembre ci raggiunse l’ordine di partenza per l’Albania. Il 29 settembre 1939 il piroscafo ci traghettò fino al porto di Durazzo e da lì, con i camion, fummo subito trasferiti a Pukor per dare il cambio ai “vèci” della classe 1910 ormai esausti. Trascorsi quella notte in una tenda con mio fratello, che la mattina successiva rientrava in Patria. Alzati di buon mattino, col mio compagno Navarini ed altri 4 parmigiani, piantammo la nostra tenda presso quella del tenente Magnani che, di ritorno dalla mensa ufficiali, ogni sera ci allungava un fiasco di Chianti con l’ordine perentorio, da noi però molto gradito, di cantare. Arrivò Natale e con esso la licenza illimitata. Nel febbraio del 1940 però fu chiamato alle armi mio fratello Dino, il più giovane di noi non ancora ventenne, ed inviato anch’egli in Albania a Scutari col Battaglione Gemona. A giugno del 1940 venni nuovamente richiamato a Udine ed inserito nel neonato 28° Reparto Salmerie, col quale fummo destinati anche noi in Albania e giunto a Scutari rividi, finalmente dopo mesi, mio fratello Dino. Il caldo insopportabile, la mancanza d’acqua nel fiume Drin per noi ed i muli, indusse il Comando a trasferire l’accampamento a Puka, dove restammo fino al 28 ottobre. Verso la mezzanotte di quel giorno, la 69ª Comp. del Btg. Gemona sferrò un duro attacco ad una casermetta greca posta a presidio della zona. L’8° Reggimento alpini, sotto una violenta pioggia, entrò così in territorio nemico dal “Cippo 7”, purtroppo però con i primi alpini feriti. Il violento contrattacco dei greci alla nostra retroguardia colpì le salmerie, con vittime fra i conducenti ed i muli. Anche il tenente Magnani venne ferito nello scontro e noi delle salmerie lo incrociammo mentre veniva portato nelle retrovie per le cure del caso. L’insistente pioggia rese le mulattiere impraticabili dal mare di fango, aggiungendosi così al problema di essere stati accerchiati dai greci. Per 11 giorni fummo riforniti di viveri e munizioni solo dagli aerei. Durante uno di questi lanci una cassa, purtroppo, cadde sopra l’accampamento uccidendo un carabiniere in una tenda. Aggregato alla 70ª Compagnia del Btg. Gemona, dopo essere rimasto senza il fedele mulo, con la mia squadra fui comandato a protezione di un ponte su cui sarebbero passati i nostri reparti. Subito dopo il passaggio del “Gemona”, del “Tolmezzo” e del “Cividale”, fummo investiti da violento attacco di truppe greche, trovando infine salvezza e riparo in un profondo canalone. Minacciati di accerchiamento, nonostante la nostra resistenza, fummo salvati dall’intervento del Btg. L’Aquila. Il 28 e 29 novembre resistemmo dall’alto di roccioni alla pressione greca su un fronte che si snodava per più di 1 Km; sulla sinistra purtroppo il Btg. L’Aquila, già stremato dal lungoperiodo trascorso in prima linea, cedette costringendoci a ripiegare. Durante la manovra una bomba di mortaio nemica colpì la postazione delle mitragliatrici pesanti uccidendo il nipote del mio compagno Navarini e tre suoi compagni. Dopo tre mesi di prima linea, senza tregua nei combattimenti né riposo, il 28 gennaio 1941 il cambio mi permise di rientrare al 28° Reparto Salmerie. Causa il mancato arrivo dei muli da Brindisi, fummo urgentemente spediti a Tepeleni per caricare negli zaini 4 bombe da mortaio a testa e portare quel pesante e pericoloso carico alle prime linee, camminando ininterrottamente per più di 5 ore. Col tempo giunsero dall’Italia anche i fedeli ed indispensabili muli con i quali ci attendammo sulla riva del fiume Vojussa, da dove ogni sera si partiva con i rifornimenti per la prima linea, attraversando il ponte di Dragoti sulla Vojussa (uno dei momenti più critici, anche i muli fiutavano il pericolo e attraversavano il ponte di corsa) e salendo per ore verso i pericolosi monti greci. In quel periodo mio fratello Dino, postino e portaordini del Battaglione Gemona, fu ferito di striscio ad una spalla da una scheggia di granata mentre andava a prelevare la posta a Tepeleni. Dopo tanto strazio e tanta fatica, fra alti e bassi, giunse la fine della guerra greco-albanese e sfilammo per le vie di Atene. Il mese successivo fummo inviati a presidiare il Canale di Corinto. Durante un trasferimento al termine del presidio, ci imbattemmo a Lutraki nel Btg. Gemona in procinto d’imbarcarsi per il definitivo rientro in Patria. Purtroppo la maggior parte di questi alpini non raggiunse mai l’Italia perché la notte del 28 marzo 1941 un sommergibile inglese silurò il piroscafo “Galilea” sul quale erano imbarcati e lì, insieme a tanti compagni ed amici, trovò la morte anche mio fratello Dino. Il giorno successivo alla tragedia, fummo inviati in tutta fretta a Corinto per prelevare i muli del Btg. Gemona che, imbarcati su un altro piroscafo che non era salpato assieme alla nave “Galilea”, erano rimasti senza conducenti. Ci rimettemmo in marcia, ognuno con due muli al seguito, verso Patrasso. Da qui, alla fine di aprile, partimmo in treno con destinazione: Italia! A Postumia trascorremmo il previsto periodo di “contumacia”, al termine del quale, finalmente, ci fu concesso un mese di licenza. Ma la mia naia non finì così… .la Grecia è terminata, a Udin siam tornati e tosto per la Russia noi siamo destinati… Il 15 gennaio mentre siamo in attesa di bere un caffè caldo, arrivò di corsa il tenete Venuti di Udine gridando: “…c’è il trombettiere?”, trovatolo fece suonare immediatamente l’adunata e gelando tutti, se ciò fosse stato ancora possibile, annunciò: “Siamo accerchiati, ribaltate le marmitte e caricate in fretta le slitte”… poi rivolto al cuciniere chiese: “quanto segna il termometro?” e l’altro: “- 41° tenente”. Attraversammo Rossosch ed il termometro della stazione segnava -42°; la sera giungemmo a Podgornoje in mezzo alla tormenta con -45°e senza potersi fermare, l’ordine è infatti di proseguire non appena alleggerite le slitte per caricarvi i feriti e i congelati. Morini di Berceto che a Tavagnacco era il sellaio del reparto, prima di partire per la Russia, andò ad Udine a prendere il cuoio col quale confezionò due paia di scarponi ‘doppi’. Quando me ne offrì un paio fui lieto e grato di accettarlo e lo sono ancora oggi, quegli scarponi infatti mi salvarono i piedi dal congelamento, purtroppo non fu altrettanto fortunato lui che non fece più ritorno a Berceto. La nostra colonna non procedeva con il grosso della Tridentina ma comunque con parte di essa che, ancora ben armata si pose alla testa del ‘serpentone umano’ e noi subito dietro con le slitte per raccogliere quanti più possibile di coloro che, congelati o feriti cadevano lungo il cammino. Camminammo per 17 giorni in condizioni critiche di fame e freddo, ben sapendo di essere accerchiati e subendo continui attacchi da parte delle truppe regolari e dei partigiani russi. Il 31 gennaio ebbe luogo un feroce combattimento che durò per l’intera giornata, le nocciole del bosco erano macinate dalle cannonate e dalle raffiche delle mitragliatrici. La notte, col favore del buio, ci rimettemmo in cammino ed 1° febbraio verso le 22 giungemmo ad Olichowatka; qui trovammo riparo in un’isba e finalmente non si sentiva più sparare. Il mattino seguente arrivò un treno con 4/5 carrozze sulle quali caricammo i feriti più gravi, io ne lasciai su quel treno solo due di quanti ne avevo sulla slitta. Il capotreno chiese se qualcuno desiderasse far giungere notizie a casa, …ma in fretta…. non era infatti possibile ritardare la partenza del convoglio. Corsi nell’isba e strappai con la baionetta un pezzo di carta da formaggio e, su quell’iprovvisato biglietto scrissi:” “Sono fuori pericolo, sto bene”. Al mio rientro a casa seppi che il postino di Gaiano, veterano della Grande Guerra, quando recapitò il ‘biglietto’ a mia madre, si commosse alle lacrime sapendo che ella aveva già perso un figlio nel naufragio del piroscafo Galilea, uno era in Russia ed il più grande, sempre alpino, scortava i treni che dal Friuli attraverso i territori occupati dai partigiani di Tito, andavano in Grecia. Lasciammo Olichowatka e lungo la strada incontrammo le slitte del battaglione Gemona, Bertinelli sulla sua trasportava 11 uomini fra feriti e congelati; incontrammo anche Dodi di Varano il quale salvatosi in Grecia, tornò anche dalla Russia per poi esser ucciso a due passi da casa. Giunti a Belgorod trovammo un secondo convoglio composto da 7/8 carrozze, vi caricammo tutti i feriti e i congelati rimasti sulle slitte, svuotandole. Concluso il nostro ingrato compito di ‘traghettatori’, arrivò un camion della sussistenza carico di viveri fra i quali non passarono inosservati due barilotti di cognac ed uno di anice, qualcuno sparò sulle botti e subito… tutti sotto con gavette e borracce. Fui costretto a dividermi dal mio compagno di slitta il quale, a causa del congelamento ad un piede salì anch’egli sul treno; noi rimasti proseguimmo la marcia verso Gomel dove giungemmo l’11 marzo 1943 e lì finalmente salimmo sulla tradotta che ci ricondusse attraverso il Brennero a Vipiteno. Il battaglione Gemona fu spostato a Colle Isarco per il consueto periodo di contumacia, al termine del quale tornò verso Udine e precisamente a Tricesimo. Da Tricesimo, fummo successivamente mandati a Caporetto, poi a Castelmonte, poco sopra Cividale, e l’8 settembre di nuovo a Caporetto. Il giorno 9 settembre i tedeschi giunsero a Tarvisio, e noi fummo divisi, una metà fu inviata a Cave del Predil e l’altra, fra cui io, a Plesso. Arrivati a Plesso, siccome i tedeschi giungevano anche da Tolmino, già dal giorno 10 tornammo sui nostri passi. Al comando del capitano Gasparini che sostituì il tenete Venuti rimpatriato a causa di congelamento, in 22 ci appostammo su di un’altura ad un chilometro da Caporetto con due nidi di mitragliatrici. Qualche giorno dopo fummo visitati da un maggiore proveniente da Udine al quale il Capitano chiese quali ordini ci fossero per noi, il maggiore rispose: “non sparate”… il capitano infuriato replicò: “allora cosa ci stiamo a fare qui, i fessi?… se ne vada, o giro la mitragliatrice e la faccio a pezzi”. Nascosto in un bosco poco distante c’era il carro trainato dai muli sul quale caricammo le armi e scendemmo verso il paese. Raggiunto Caporetto vedemmo che la sussistenza stava caricando un camion con rimorchio e da sopra la sponda di questo si vedevano delle invitanti forme di formaggio; avvicinammo il carro e ve ne facemmo scivolare sopra 3. Il capitano allora, ordinò di allontanarsi velocemente prima di essere visti e, con ‘circospezione’ ci avviammo verso Cividale. Lungo la strada ci fermammo in un’osteria dove il capitano Gasparini ordinò tre boccali di vino, poi chiese all’oste un coltello robusto adatto a fare a pezzi le forme di formaggio. Ne consegno una punta a testa ed i rimanenti 3 kg, circa, li donò all’oste che contento di accettarli non volle nulla per il vino servito. Il mattino seguente a Cividale ci rifornimmo di pane e inaspettatamente il capitano ci congedò dicendo: “Io non posso tornare a casa perché abito in città a Trieste ed è in mano nemica, quindi mi unirò ai partigiani, voi andate ma, mi raccomando: non fatevi sparare”. Qui finisce la storia di naia dell’alpino Bruno Sanelli, se qualcuno volesse conoscere cosa gli è successo negli ultimi 67 anni trascorsi da allora, lo può trovare nella baita del gruppo di Medesano o a molte manifestazione alpine della nostra provincia. Consentite però a chi ha raccolto questa testimonianza di ringraziare Bruno, come feci quando lo conobbi, per esserci stato allora ma soprattutto per avere scelto di rimanere, anche dopo quanto ha passato, ancora con noi oggi! Grazie Brunè per aver saputo fare esperienza anche di quei brutti momenti e di averli saputi trasformare in un insegnamento per riuscire ad apprezzare ogni attimo della vita, ma ancor di più perché riesci a trasmettere questa vitalità e questa gioia di vivere a chiunque ti stia vicino. Senza alcuna retorica, ma con grande affetto!